Viaggiate spesso per lavoro? Sesso e curiosità vi salveranno

Dopo 19 anni di aerei, treni, navi e macchine a noleggio, a volte ho sognato il teletrasporto. Molte volte! Tanto più che oggi, tra controlli isterici e paura di non essere al sicuro, viaggiare per lavoro non è esattamente il massimo della vita.

Se non avete l’opportunità di cambiare ruolo professionale e starvene davanti a un pc o se, come me, amate ciò che fate e avete deciso che niente e nessuno potrà incidere sulle vostre abitudini e sulle responsabilità, condivido qualche suggerimento per alleggerire il disagio, specie nelle lunghe tratte.

Da viaggiatore a viaggiatore.

Fate sport il giorno prima della partenza, o, se possibile, fate l’amore, che è ancora meglio. Oh, no: non voglio risultare dissacrante e utilitaristico, è un’evidenza scientifica: il sesso favorisce il rilascio di ossitocina, ormone che vi aiuterà a prendere sonno più facilmente, allenerete i muscoli lombari e vertebrali che consentiranno una postura migliore (indispensabile per non morire di mal di schiena), senza contare il rilascio di endorfine, fondamentali per tenere alto l’umore. E, credetemi, vi servirà tutto. (Poi, diciamocelo, per chi è innamorato, salutare il proprio partner così è come prendere una boccata d’aria fresca prima di una lunga apnea).

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Utilizzate i viaggi per imparare a stare da soli. No, non credo sia esclusivamente una questione caratteriale: mi sono dovuto impegnare molto per apprendere l’arte della solitudine. Sopravvivere nello spazio angusto di un mezzo di locomozione, in un letto che non è il tuo, in una stanza d’albergo che ti è estranea, un anno dopo l’altro, non è uno scherzo. Cenare da soli e non poter condividere l’attimo, risulta a volte molto pesante. Avere un ottimo rapporto con sé stessi e imparare a farsi compagnia anche nelle difficoltà, nelle indolenze e nelle fatiche è indispensabile. 

Siete fatalisti? No? Beh: diventatelo. Giusto un pochino. Osservate con curiosità quello che vi capita intorno: chi vi siede accanto (perché c’è questo passeggero e non un altro?), la hostess che sbadiglia e che, come voi, dopo sei ore di volo, si sta annoiando a morte (andate a salutarla?), il libro letto dal tizio una fila davanti (gli chiedete com’è?). Chi di loro potrebbe diventare il vostro futuro migliore amico, partner professionale, piacevole conoscenza? Cosa potrebbe tenervi impegnati per le successive sei ore? Da cosa potreste trarre piacere, informazione, apprendimento?

Sono domande che mi pongo sempre e sempre succede un piccolo miracolo: lo stesso e identico viaggio si trasforma in un viaggio diverso.

Bruxelles, per continuare a costruire un presente migliore

Bruxelles, per continuare a costruire un presente migliore.

Suona male? Forse un paradosso? Ve lo spiego, o almeno ci provo.

Dopo “A Parigi, Gesù ha i calzoni corti“, ci ritroviamo più o meno terrorizzati dai fatti accaduti oggi a Bruxelles.

In un giro veloce sui social, ho notato alcuni commenti che mi hanno fatto riflettere.

Ho letto: “in 3, 2, 1  … tutte le foto dei profili con la bandiera del Belgio”. Cioè?? Ci si aspetta ormai che la massa reagisca copiosamente a mo di gregge. E’ forse questo che vogliono?

Ho letto: “JE SUIS sick of this shit”. Bene, concordo e sottoscrivo ma, quindi?

Ho letto altro, ma forse e spero di essermi sbagliato, molti meno commenti rispetto a Parigi. Si, spero di essermi perso qualcosa. 

Ma soprattutto ho letto un commento di una mia cara amica, che come molti di noi combatte la sua battaglia personale, che ha scritto: “La fortuna di essere in grado di potere spendere ogni istante della propria vita nel migliore dei modi..il ricordarselo sempre..indipendentemente da quello che succede altrove: reagire a queste “cose” è vivere al meglio quello che ancora ci resta. Non accusare, non rattristarsi ma continuare a costruire una realtà umana e bella. È difficile, ma lasciarsi travolgere vuole dire darla vinta a chi trova ragione d’esistere nel distruggere l’esistenza, propria e altrui. Non posterò nient’altro che rimandi a Bruxelles, e continuerò a costruire un presente migliore”.

Mi ritrovo nel suo pensiero, che faccio mio e condivido con voi, che non avete la fortuna di conoscerla.

Grazie Silvia!

 

Chi vincerà il Foodservice Award Italy 2015?

English version here


Qual è il significato di istituire un premio per la miglior catena di ristorazione italiana?

E quale quello di parteciparvi?

Beh, se si trattasse solo di farsi un po’ di pubblicità, credo esistano altri sistemi, più diretti e con meno incognite.

Mi sono fatto un’idea personale che mi ha convinto ad essere coinvolto come giudice al FOODSERVICE AWARD ITALY 20015

Norman Cescut -BLOG-Foodservice Award Italy

Credo che il punto sia il miglioramento continuo. L’essere sempre sul pezzo, ovvero sul mercato.

So bene che è il pubblico a sancire il successo di una formula e non certo un tizio con una paletta in mano, ma ammiro molto chi si mette in gioco e sembra dirti: “ecco, io sono questo, questo è il mio mondo, questa la mia voce, tu che ne vedi tante, che sei un tecnico, un professionista del settore, che ne pensi?”

E partire da lì per crescere ancora, per trovare spunti, per misurarsi.

Sono, quindi, onorato di essere stato scelto per questo ruolo nella categoria APPEAL INTERNAZIONALE, insieme ad altri professionisti che stimo molto.

Sarà difficile valutare, ma ovviamente cercheremo di farlo al meglio.

Il mio Hotel – A Parigi, Gesù ha i calzoni corti.

Paris under attack!

Una cara amica mi ha chiesto: “visto che lavori molto nei paesi mediorientali, di origine e cultura araba, nonché di religione musulmana, pensi che la tua azienda debba scrivere qualcosa sui fatti di Parigi? Prenderai posizione rispetto a quello che è accaduto?”

La mia risposta è stata un secco: “NO”, seguito da uno sfogo scomposto di pensieri dettati da 18 anni di continui viaggi in Medio Oriente.

No, la mia azienda non prenderà posizione, non dirà nulla. Non utilizzerà questi incomprensibili avvenimenti per fare audience. Ch senso avrebbe?. Meglio un omertoso silenzio.

Perché, invece, io decido, a livello personale, di dire qualcosa? Perché ho turbamenti che mi torcono le budella e diverse esperienze dirette che ho bisogno di condividere.

Poi, per le analisi più profonde, rileggiamoci la Fallaci o Terzani, e di entrambi prendiamo il meglio, perché la verità sta sempre a metà. Se, poi, vogliamo comprendere perché la Francia, ripassiamoci la storia, soprattutto Mitterand.

Perché ne parlo proprio qui, nello spazio destinato a “Il mio hotel”?

Perché la memoria mi ha riportato a circa 17 anni fa, durante il mio primo viaggio in Arabia Saudita. Un soggiorno lungo, di quelli che non vorresti mai fare, con il week-end di mezzo. Quelli che allenano la pazienza. Beh, io, in quel week-end, ho conosciuto la legge del taglione: una folla infuriata si era stretta attorno a un uomo incriminato di furto e ho visto volare via la sua mano come un uccello muto.

Quella mattina avevo imparato anche che, con i bermuda o i calzoni corti, in hotel, non si può nemmeno andare a fare colazione.

Chiaro il concetto? Si applicano le regole.

Sono a disagio coi commenti da “bar dello sport” e vorrei tanto che le persone si informassero meglio, prima di dire qualsiasi cosa o di postare sui social solo per seguire la massa. (ne parlai anche qui Israel and Palestine)

Perché, in Kuwait, se entro in un ascensore stretto, con dentro marito e moglie, lui si pone di mezzo allungando il braccio a mo’ di sbarra? Perché queste sono le loro regole, è la loro usanza, è il loro modo di vivere. 

E allora perché, il popolo occidentale non fa rispettare le sue? Perché si perde tempo a dibattere sul crocifisso nelle scuole o sull’apertura della nuova moschea?

Facciamo rispettare le regole! Punto e basta.

Siamo in Italia e, se non ti sta bene il crocifisso, torni da dove sei venuto, non alzi la voce, e lo dico con la stessa serenità con cui lo direi ad un alunno che non vuole fare catechismo. Chiedi il permesso e sarai esonerato. Non pretendi che tutti non facciano catechismo e quindi, non puoi pretendere un’integrazione che comporti la messa in discussione della nostra cultura. L’integrazione, quella vera, è un’altra cosa.

Abbiamo bisogno di azione e non di parole, certo, ma non quella delle bombe, bensì quella della capacità di essere padroni, accoglienti, ma fermi, in casa nostra.

Conosco tanta gente in Libano, come in Israele: ci sono persone colme d’odio, che si ammazzerebbero subito, ma altrettante che hanno amici e amori al di la del confine. Ricordo che arrivai a Riyadh il giorno dopo l’attentato kamikaze al compound americano, forse ve lo ricordate. Il cliente che dovevo incontrare mi venne a prendere e mi disse: “sono sconcertato, mia moglie (saudita) se ne vuole andare, ha paura. Non so che fare”. (E lo dici a me?)

Quella sera in hotel, mi sono sentito terribilmente solo e impotente.

Ricordo Beirut nel 2005: arrivai che c’era una folla incredibile nelle strade, la mattina dopo, ci fu un’esplosione in pieno centro, vicino al Phoenicia Hotel. Vissi in una città fantasma per tre giorni. Era irriconoscibile. Poi, la normalità. Almeno apparente. 

Ricordo Israele, qualche mese dopo l’attentato kamikaze alla discoteca sul lungomare di Tel Aviv. Gente in fila al centro commerciale per i controlli di routine; posti di blocco lungo le strade, atmosfera strana, ma, comunque, tutti in giro, specialmente la sera. Festa.

A cena domandai: ma come fate a vivere in questo modo?

Risposta: e come dovremmo vivere? Chiusi in casa come topi? Sarebbe suicidio. Morti senza essere sepolti.

Feci la stessa domanda a Beirut. Stessa risposta. Almeno qualcosa li accomuna. Paradosso: la voglia di vivere.

Gli arabi sono permalosi, come noi del resto, ma, se è vero che, nel Corano, Gesù è riconosciuto come un profeta, perché un credente praticante musulmano dovrebbe uccidere o odiare i cristiani? Non ha senso. Evidentemente c’è altro, qualcosa che ci sfugge, di più grande e complesso, che non afferisce alla religione, ma che trova nella religione il bacino di combattenti più pericoloso che ci sia.

Eppure io non educherò i miei figli ad aver paura di un arabo o di un musulmano più di quanta non ne debbano avere del vicino di casa, che magari, li spia la sera, quando tornano a casa.

Non chiediamo di scacciare il diverso, anche noi lo siamo per loro.

Chiediamo, invece, che le regole vengano applicate, come le applicano loro.

Se non è possibile fare colazione in hotel coi calzoni corti, ok: basta saperlo.

Per il resto, meglio vivere in pace.

Il mio hotel – Il minibar meneghino

Ho imparato ad amare Milano, frequentandola per fiere, eventi e incontri coi clienti. Ai clienti piace da matti incontrarsi a Milano, anche se devono venire da Bologna. Evidentemente sentirsi parte di un ambiente riconosciuto come glamour può essere molto piacevole. No, non credo che ci vivrei mai, ma sporadiche incursioni sono molto formative e accendono la mia creatività.

Ero, appunto, a Milano per lavoro e alloggiavo in un piccolo hotel in Corso Garibaldi, strategicamente scelto per muovermi a piedi. Appena preso possesso della mia stanza, ho subito cercato qualcosa di fresco da bere nel minibar. Vuoto. Niente di grave, certo, però tu sei lì, stanco, impegnato, magari hai anche pochi minuti per rifocillarti prima di un altro incontro e non hai tanta voglia di scartare il bicchiere di plastica disponibile in bagno e farne il calice di un’acqua corrente dallo strano colore grigio. Telefono alla reception e comunico il problema.

Mentre attendo rassicurazioni, la memoria mi riporta bruscamente in Medio Oriente, a quella volta che mi accadde una cosa simile e, dopo cinque secondi dalla mia telefonata, un omino infilato in un abito ocra si è presentato in camera con un intero carrello zeppo di ogni bontà e mi ha fatto riempire il frigo di ciò che volevo. Le mille e una bevanda.

Mentre ci ripensavo, avvolto dal compiacimento, inclinavo la testa da un lato. C’è qualcosa di più bello che sentirsi coccolati?

Invece, io ero ancora al telefono che venivo rimbalzato da un’orribile musichetta all’altra, in attesa che qualcuno mi confermasse la possibilità di idratarmi nel giro di pochi minuti. Sognante, cornetta sull’orecchio, mi sono nuovamente abbandonato alla memoria delle esperienze mediorientali, al “thank you Sir, sorry Sir, good night Sir” che non fa mai pensare a un timore reverenziale, quanto piuttosto alla piena padronanza di una professione, nata appositamente per soddisfare il concetto di “ospitalità”.

Il cliente è sovrano.

Sono stato sottratto alla dimensione onirica dalla voce stridula di una ragazza che, finalmente, mi ha risposto di essere riuscita a “informare chi di dovere del mio bisogno”. L’espressione mi ha fatto sorridere: possibile che un alberghetto debba manifestare gli stessi problemi burocratici di una struttura parastatale? Il servizio è parte integrante della struttura. È come se fosse una porta o il letto: non si può pensare che manchi o sia scadente. Se hai un frigo, dev’essere pieno. Se credi sia un costo ingestibile per la tua strategia commerciale, non lo prevedi e lo indichi sul tuo sito tra le comodità mancanti. Ci vuole coraggio, ci vuole una linea di condotta, ma, soprattutto, ci vuole grande amore per questo far sentire l’ospite, non come a casa sua, ma meglio. La ragazza ha riattaccato senza darmi indicazioni sui tempi tecnici della mia attesa e io ero abbastanza certo che, se mi fossi buttato sotto la doccia, “chi di dovere” avrebbe bussato in quel momento.

Morale della favola: non ho bevuto, ho fatto una doccia frettolosa e mi sono beccato la vocetta indolente di una persona priva di ogni empatia nei miei confronti. Il tutto nel giro di mezz’ora e prima di un appuntamento importante. Dopo tanti anni di questo lavoro, so bene che i clienti possono essere dei rompiscatole, ma quello che sono costretti a sopportare tante volte da ristoratori, albergatori, gestori e personale vario, non è da meno.

5 punti “diversi” per diventare un imprenditore

Non desidero più lavorare in azienda e vorrei creare un business tutto mio: da dove inizio?

Ora, supponiamo che un professionista, o aspirante tale, non abbia più le idee chiare su cosa desideri fare del proprio futuro: le esperienze precedenti, per quanto importanti, non lo stanno aiutando a decodificare i segnali del mercato, a intercettare delle possibilità, delle tendenze o suggerirgli delle strade.

L’unica pulsione che comprende con chiarezza è il bisogno di fare un salto di qualità: da manager (o da professional) a imprenditore.

Magari ha anche qualche risorsa da parte e gli frullano in testa tante idee che vorrebbe sviluppare, ma, poi, resta impantanato in un mare di suggestioni, di offerte formative, di spaventosi messaggi di crisi e di amici (amici? già, su questo tema potrei scrivere tanto) che cercano di dissuaderti.

Ecco, quello è davvero un momento difficile da gestire, quando ti sembra di poter fare tutto quello che vuoi, ma non sai bene come.

Senza nessuna pretesa di essere esaustivi, attingendo alla mia esperienza diretta e, aldilà dei classici decaloghi sterili e ripetitivi (definisci degli obiettivi, valuta i pro e i contro, bla bla), provo a elencare cinque comportamenti che, secondo me, sono passaggi obbligati per sbloccare quel momento e possono costituire i primi passi per liberare le energie e quindi, iniziare un percorso.

  1. Stabilisci, senza rimpianti e senza sensi di colpa, cosa NON sei più disposto a fare nel tuo lavoro. Ricordati che lavoro, significa anche stile di vita. Inutile puntare alla carriera se non sei incline a rimetterti a studiare e aggiornarti in continuazione o se ti stressa l’idea di occuparti dell’intera filiera di business: dal reperimento del cliente al recupero crediti quando farà storie per pagarti. Per dire.
  2. Fai formazione, certo, ma non partire dalle specializzazioni, dal “piccolo”, dallo specifico, parti dal “grande”. Mi spiego meglio: non ha molto senso capire come fare marketing con Facebook, se non ho cognizioni strategiche più ampie sul business online, per esempio.
  3. Raccogli informazioni di persona: solo internet non basta! Frequenta ambienti stimolanti e informati direttamente alla fonte: partecipa a fiere, eventi, seminari o workshop dei tuoi settori di interesse. Incontra persone, guarda in faccia i competitor, osserva l’affluenza di pubblico, stima le tue competenze rispetto all’esigenza di quel mercato. Impara dai leader, da quelli che sbagliando e rimettendosi in gioco, sono riusciti a creare quanto volevano. Perché si, sbagliare o fallire fa parte del gioco e credetemi, insegna più di quanto immaginiate.
  4. Sii curioso, prima ancora che “valutatore”, non escludere niente e cambia spesso punto di vista (solo gli stolti hanno sempre ragione, no?). Pensa in prospettiva – da qui a 5 anni cosa potrebbe capitare? Dove mi immagino? Chi sarò?
  5. Verifica l’opportunità di chiedere una consulenza professionale di un imprenditore esperto (io ho fatto stage dai competitor all’estero per tanti anni, imparando moltissimo). Non sono MAI soldi sprecati, anzi, è esattamente quello che ti permetterà di risparmiare tempo, soldi ed errori.

È così che ragiono dal 1997, è così che ho impostato la mia strada e la mia azienda, ed è così che aiuto i clienti a focalizzarsi e non fare passi falsi o gli investitori a cercare l’occasione perfetta per loro. Da quest’anno racconterò il dietro le quinte dei miei progetti più importanti, mettendomi al servizio degli imprenditori del futuro.

Il mio Hotel – Dubai con sorpresa

Ho prenotato con cura 5 hotel per i prossimi due mesi: Dubai, Milano, Doha, Abu Dhabi, ancora Dubai. Quella della pianificazione è un’inclinazione personale, forse, ma è anche un’arte, un potente strumento di efficacia e salvezza, oltre che di business.

L’importanza di analizzare e pianificare l’ho appresa sulla mia pelle, quando, nel 1997, che ancora non avevo creato DESITA e mi portavo a spasso i miei invincibili 26 anni, arrivai per la prima volta a Dubai, di notte, stravolto dal viaggio (allora si volava con Alitalia!), dalla tensione delle prime esperienze lavorative internazionali e trovai naturale infilarmi nel primo albergo disponibile, purché vicino alla sede del mio appuntamento, un paio di giorni dopo.

Dubai viveva il periodo della sua crescita esponenziale e si trovavano con facilità strutture a 4 stelle che, nel mio immaginario, mi avrebbero garantito un soggiorno senza particolari problemi. In quell’occasione mi misero in mano la prima chiave elettronica in formato tessera della mia vita e io mi sentii un po’ dentro Star Trek.

Infilavi la tessera, le luci e l’aria condizionata si accendevano e ti regalavano la vista di una stanza enorme, con il letto matrimoniale a novanta piazze e i cuscini che parevano altrettanti letti.

Ero felice. Cosa poteva andare storto?

Peccato non avessero previsto che, una volta usciti, tolta la tessera, spente le luci, spenta l’aria condizionata, gli scarafaggi si sarebbero impossessati del territorio per le loro scorribande notturne.

È lì che ho avuto la prima folgorazione della mia carriera: mai più niente di improvvisato.

Subito seguita dalla seconda folgorazione: anche le strutture più insospettabili hanno bisogno di consulenza.

La terza folgorazione, poi, mi sparò nel Nirvana: che te ne fai di una location stupenda se non funziona in ogni minimo dettaglio? Se non è pensata per gestire le peculiarità di quel territorio?

Ne dovevo fare di strada.

Insomma, il ’97 fu l’anno degli scarafaggi e delle folgorazioni in hotel.

Ma ogni volta ce n’è una: incredibili sorprese e stratosferiche delusioni.

Ho deciso, ve le racconterò in tempo reale nei prossimi giorni.

Mica mi lascerete solo?

Seduto. Stanco. Sincero

Seduto. Il mio posto è il 36G, corridoio ovviamente. Perché? Perché  di decolli, atterraggi e tramonti ne ho visti molti. Da anni ormai, preferisco godermi il viaggio sognando senza farmi aiutare dal finestrino, lasciando la mente vagare. Magari un film, un buon libro o un vicino interessante. E poi, scappasse, non devo chiedere permesso a nessuno.

Ora stiamo ballando causa turbolenza, se notate errori di battitura, sapete il motivo.

Stanco. Perché la giornata è iniziata presto e non appena sono entrato in autostrada ho trovato l’A14 bloccata da rientri last minute, invorniti al volante e un incidente che, da tabellone, indicava un mio ritardo previsto oltre il consentito. Che fare? Rischiare di perdere l’aereo o trovare un’alternativa? Oggi, 31 agosto di 18 anni fa, partivo alla volta di Fano per iniziare ad occuparmi di estero per una grande azienda (volete sapere una bella coincidenza? Il titolare, o meglio il figlio ora in carica, di quell’azienda è seduto poche file “davanti” a me. Capito, no?). Quindi che fare? Alternativa, of course! Non potevo essere da meno che 18 anni fa, no? Via! Uscito a Cesena, direzione Ravenna e poi nel nulla fino a Ferrara dove ho ripreso l’autostrada. Così facendo, ho gabbato: il traffico, l’incidente, tutti gli invorniti al volante in coda per due col resto di pochi, e pure il navigatore. Orario di arrivo al Marco Polo? Puntuale! Ma stanco, appunto.

Sincero. Ho letto il blog di un’amica e così, mi è venuta voglia di scrivere. Tanto che non lo facevo.

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Associazione X e Y!

… e poi accade che ti chiama un “professionista” del settore. Uno di quelli che come inizia a parlare, si elogia e si sbrodola elencando i suoi benemeriti lungi 30 anni di carriera. Ovviamente omettendo, per esempio, i vari provvedimenti effettuati dall’AGCM, l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato a suo carico e sfavore.

Ti chiama perché cerca aiuto professionale, collaborazione, premettendosi come persona pulita ed integerrima; persona che, a detta sua ovviamente, non ha mai chiesto ne ricevuto nessuna commissione. E pensare che, di solito, è proprio chi fa queste premesse che poi, diciamocelo, razzola male. Chi altro, mai visto e sentito, ti fa una premessa del genere se non per lanciarti l’esca?

Insomma, dopo essere stato gentile e disponibile per comprendere se l’interesse fosse vero o meno; dopo aver fatto chilometri di strada per un incontro insignificante che non auguro a nessuno, ecco che, dopo tutto questo, il “professionista” in questione, inizia ad informarsi – non prima badate bene – e chiudendoti le porte in faccia per una presunta collaborazione che non avverrà mai, ti chiede le referenze nel settore, occasione ghiotta per poter riassumere le proprie, ovviamente.

A parte iniziare, per cortesia a domanda ricevuta, un elenco che lo lascia da subito senza parole, incomincio a notare una certa, come dire, ansia da prestazione finché, eccola, la domanda: “Ma lei, di che associazione del settore fa parte?

Sorrido, respiro e con calma, semplicità e profondo orgoglio, rispondo: “Faccio parte di …”

Lascio vuoto lo spazio dedicato al nome dell’associazione per questi motivi: non mi ha dato il tempo di completare il nome; non è mia intenzione passare per chi vuole fare pubblicità; non è il tema di questo post. Spero comunque di essere riuscito a trasferirvi la sensazione di taglio/vuoto che ho avuto anch’io, quando con la sua risposta immediata e concisa il “professionista” è montato letteralmente sulle mie parole.

“Allora io e lei non possiamo collaborare, perché io faccio parte dell’associazione Y”.

Ora, premettendo che a me, di che associazione si faccia parte o meno, non importa tanto da influire in fase conoscitiva sulle caratteristiche professionali o umane di una persona, visto che sono abituato ad una mentalità aperta come quella che esiste fuori dal nostro bel paese, ho risposto a tal “professionista” che vista la sua esternazione per me fuori luogo, ero io a quel punto a non gradire di aver a che fare con lui. Sinceramente, anche rincuorato da quella specie d’incontro, tutt’altro che professionale.

In tutta trasparenza, io mi ero informato prima su di lui, e pur sapendo del suo “schieramento”, ho acconsentito ad un incontro rendendomi disponibile ad una collaborazione, a prova del mio pensiero di cui sopra e di quanto già espresso in passato.

many hands symbolizing teamwork/power/unity/equality

Ecco qui, un altro estratto della nostra bella Italia, fatta da persone che per puri giochi d’invidia, poltrona o paura, si nascondono dietro un’associazione, un partito o addirittura, ahimè, dietro una squadra di calcio.

Come dissi a lui: “Povera Italia! Ma come possiamo risollevarci dalla crisi, se corriamo ancora dietro a questi sbandieramenti da bar Sport, senza imparare a fare rete e sistema? Neanche non si stesse parlando di Franchising!

Com’è finita? Per la cronaca, il “professionista” già ansioso, ha iniziato ad agitarsi talmente tanto che causa urla ed imprecazioni, mi ha costretto a salutare e a chiudere la comunicazione anticipatamente, malgrado stesse ancora parlando. Ehm, scusate, urlando!

Si, l’Italia è piena di allenatori e purtroppo anche di “professionisti”. Buon lavoro!